Erich Fromm (1900-1980) considera qui il rapporto fra società e natura umana, sottolineando come le condizioni imposte dalla società e dalla cultura allo sviluppo psichico, in quanto contrastano con i bisogni dell’individuo, possono creare la “malattia” dell’intera società. Fu questa la convinzione espressa da S. Freud nel Disagio della civiltà; e da queste premesse procede anche la riflessione che svolge E. Fromm in queste pagine.
E. Fromm, Psicoanalisi della società contemporanea, 2
Parlare di una società intera come psichicamente ammalata comporta implicitamente l’accettazione di un’ipotesi controversa e contraria alle posizioni del relativismo sociologico condivise dalla maggior parte dei sociologi contemporanei. Essi presuppongono che ogni società sia normale in quanto funziona, e che la patologia possa esser definita soltanto nei termini di un mancato adattamento individuale al tipo di vita proprio di tale società.
Parlare di “società sana” comporta premesse diverse da quelle del relativismo sociologico. Ed ha senso solo se presumiamo che ci possa essere una società che non sia sana; questa ipotesi, a sua volta, presuppone, per quanto riguarda la salute mentale, l’esistenza di criteri di giudizio universalmente accettati, validi per giudicare il genere umano come tale, e secondo i quali si possa giudicare la salute di una qualsiasi società. Questa posizione di umanesimo normativo è basata su alcune premesse fondamentali.
La specie “uomo” può essere definita non soltanto in termini anatomici e fisiologici; i suoi membri hanno in comune anche qualità psichiche fondamentali, le leggi che governano le loro funzioni mentali ed emotive, e lo scopo di dare una soluzione soddisfacente al problema dell’umana esistenza. In effetti la nostra conoscenza dell’uomo è ancora troppo incompleta perché sia possibile dare una definizione soddisfacente dell’uomo sotto l’aspetto psicologico. È appunto compito della “scienza dell’uomo” definire esattamente cosa si debba intendere per natura umana. Spesso per natura umana si intende semplicemente una delle sue diverse manifestazioni, spesso una manifestazione patologica, e per lo piú tale errata definizione ha la funzione di difendere un particolare tipo di società, come se questo fosse il necessario prodotto della struttura mentale dell’uomo.
Contro tale uso reazionario del concetto di natura umana, i liberali fin dal diciottesimo secolo hanno insistito sulla capacità di adattamento della natura umana e sull’influenza decisiva dei fattori ambientali. Anche se vera ed importante, questa affermazione ha indotto molti sociologi a ritenere che la struttura mentale dell’uomo sia carta bianca su cui la società e la cultura scrivono il proprio libro, e che di per se stessa non possiede alcuna qualità intrinseca. Questa ipotesi è in effetti non meno insostenibile e distruttiva per il progresso sociale di quanto lo fosse il punto di vista opposto. Il problema è di estrarre il nucleo comune a tutto il genere umano dalle molteplici manifestazioni dell’umana natura, sia normali sia patologiche, cosí come le osserviamo in individui e culture diverse. Bisogna inoltre scoprire le leggi inerenti alla umana natura, e le mete del suo sviluppo e del suo manifestarsi.
Tale concetto di “natura umana” si differenzia dall’uso convenzionale del termine. Effettivamente, come l’uomo trasforma il mondo che lo circonda, cosí, nel processo storico, egli modifica anche se stesso. Egli è, per cosí dire, la sua stessa creazione. Ma come l’uomo può trasformare e modificare gli elementi naturali che lo circondano soltanto secondo la loro particolare natura, cosí egli può modificare se stesso soltanto rispettando la propria natura. L’attività dell’uomo nel processo storico sta nello sviluppare questo potenziale attivandolo secondo le possibilità ad esso inerenti. Questo punto di vista non è né “biologico” né “sociologico”, se con ciò si mirasse a separare tra loro questi due aspetti. Esso piuttosto trascende tale dicotomia, supponendo che le diverse passioni e i diversi stimoli umani risultino dalla esistenza totale dell’uomo, che queste passioni e questi stimoli siano definiti e accettabili, alcuni atti a portare alla salute e alla felicità, altri alle malattie e all’infelicità. Un dato ordinamento sociale non crea queste esigenze fondamentali, ma determina il ristretto numero di passioni latenti che devono diventare esplicite e dominanti. L’uomo, quale appare in una data cultura, è sempre una manifestazione della natura umana, una manifestazione tuttavia che, nella sua specifica estrinsecazione, è determinata dalla struttura sociale in cui egli vive. Difatti come un bambino nasce con tutto il suo potenziale umano che si dovrà sviluppare in circostanze sociali e culturali favorevoli, cosí il genere umano nel corso del processo storico si sviluppa nell’ambito delle proprie potenzialità.
Il punto di vista dell’umanesimo normativo è sostenuto dalla convinzione che, come in altre questioni, anche per il problema dell’esistenza umana vi sono soluzioni giuste ed errate, soddisfacenti e insoddisfacenti. La salute mentale viene raggiunta se l’uomo si sviluppa, sino a raggiungere la maturità completa, in accordo con le caratteristiche e le leggi della natura umana, e le malattie mentali consistono in un mancato sviluppo in questo senso. Date tali premesse, il metro di giudizio della salute mentale non sarà stabilito in rapporto all’adattamento individuale in un dato ordinamento sociale, ma dovrà essere universale, valido per tutti gli uomini, e in grado di dare una risposta soddisfacente al problema dell’esistenza umana.
Ciò che trae specialmente in inganno quando si considerino le condizioni mentali dei membri di una società, è la “convalida consensuale” dei loro concetti. Si ritiene ingenuamente che, se certi sentimenti o certe idee sono condivisi dai piú, essi sono giusti. Niente è piú lontano dal vero. La convalida consensuale in sé non ha nulla a che vedere con la salute mentale. Come c’è una folie à deux, cosí c’è una folie à millions. Il fatto che milioni di persone condividano gli stessi vizi non fa di questi vizi delle virtú, il fatto che essi condividano tanti errori non fa di questi errori delle verità, e il fatto che milioni di persone condividano una stessa forma di malattia mentale non fa che questa gente sia sana.
C’è tuttavia una differenza importante tra malattie mentali individuali e sociali, che suggerisce una differenziazione tra i due concetti: quello di deficienza e quello di nevrosi. Se una persona non riesce a raggiungere libertà, spontaneità e genuina espressione di sé, si può ritenere che essa abbia delle gravi forme di deficienza, sempre che si creda che libertà e spontaneità siano delle mete obiettive raggiungibili da ogni creatura umana. Se poi questa meta non è raggiungibile dalla maggioranza dei membri di una data società, allora abbiamo a che fare con il fenomeno di una deficienza socialmente strutturata. L’individuo la condivide con molti altri, ma non crede si tratti di una deficienza e la sua sicurezza non è minacciata dalla consapevolezza di essere diverso, di essere, per cosí dire, un proscritto. Ciò che può aver perso in ricchezza, in sentimento genuino di felicità, è compensato dal senso di sicurezza datogli dall’adattamento al resto dell’umanità, sempre però com’egli la vede. In effetti può avvenire che proprio questa deficienza sia stata elevata a virtú dalla sua cultura, e che pertanto gliene derivi un accresciuto sentimento di successo.
Potrebbe valere come esempio il senso di angoscia e di colpa che le dottrine di Calvino hanno destato negli uomini. Si potrebbe dire che la persona oppressa dal senso della propria debolezza e indegnità, da comuni dubbi sulla salvezza o condanna della propria anima, che è difficilmente capace di gioia genuina, soffra di una grave deficienza. Tuttavia questa stessa deficienza concordava col sistema culturale, era considerata degna di particolare stima, e l’individuo era cosí protetto rispetto alle nevrosi che lo avrebbero colpito in una cultura dove uguali deficienze gli avrebbero causato un sentimento di profonda insufficienza e di isolamento.
Spinoza formulò molto chiaramente il problema della deficienza socialmente strutturata. Egli disse: “Vi sono uomini presi con grande violenza da un’unica passione: tutti i loro sensi sono cosí eccitati da un unico oggetto che essi lo hanno presente anche quando quest’oggetto non c’è. Se ciò si verifica mentre una persona è sveglia, noi diciamo che costui vaneggia. [...] Ma se l’avaro pensa soltanto al denaro e ai suoi beni, e l’ambizioso soltanto alla gloria, noi non li riteniamo pazzi, ma solo disgustosi e, generalmente, li disprezziamo. In effetti però l’avarizia, l’ambizione e altre passioni sono forme di pazzia, sebbene generalmente non siano reputate malattie”.
Queste parole, scritte qualche secolo fa, sono ancora valide anche se queste deficienze sono state strutturate culturalmente in modo tale che ormai non le si giudica piú disgustose o disprezzabili. Oggi ci incontriamo con persone che agiscono e sentono come automi: che non hanno mai avuto un’esperienza veramente propria, che conoscono se stessi non come sono nella realtà, ma come gli altri si attendono che siano, il cui sorriso convenzionale ha sostituito la risata genuina, le cui chiacchiere insignificanti hanno sostituito il colloquio comunicativo, la cui opaca disperazione ha preso il posto di un’autentica sofferenza. Due cose si possono dire per costoro: una è che soffrono di una mancanza di spontaneità e di individualità che può sembrare incurabile; nello stesso tempo si può anche rilevare come essi non sono essenzialmente diversi da milioni di altri che si trovano in eguali condizioni. Alla maggior parte di loro la cultura fornisce strutture che li mettono in grado di vivere con una deficienza senza ammalarsi. È come se ogni cultura fornisse il rimedio contro le esplosioni di evidenti sintomi nevrotici, conseguenza della deficienza che questa stessa cultura ha provocato.
Supponiamo che nella cultura occidentale il cinema, la radio, la televisione, gli avvenimenti sportivi e i giornali siano sospesi per quattro sole settimane. Chiuse queste diverse vie di evasione, quali sarebbero le conseguenze per gente ridotta solo alle proprie risorse? Indubbiamente, seppur in cosí breve tempo, si registrerebbero esaurimenti nervosi a migliaia, e ancor piú sarebbero le persone che cadrebbero in uno stato di ansia acuta non diverso dal quadro clinico di una nevrosi. Se fosse tolto il narcotico contro la deficienza sanzionata, le malattie si manifesterebbero apertamente.
Ma per una minoranza il modello fornito dalla cultura non funziona. Si tratta spesso di persone la cui deficienza individuale supera il livello medio, cosicché i rimedi offerti dal costume culturale non sono sufficienti per prevenire l’esplosione di malattie manifeste. (Il caso tipico è quello di una persona la cui aspirazione nella vita sia di raggiungere potere e fama. Anche se questa aspirazione è di per se stessa un caso patologico, c’è tuttavia una differenza tra chi usa le proprie capacità per raggiungere realisticamente la meta, e chi invece, piú gravemente malato, è ancora cosí totalmente vittima di un senso infantile della grandezza da non far nulla per raggiungere quel che desidera, da restare in attesa di un miracolo, e cosí sentendosi sempre piú impotente finisce per provare un senso di inutilità e di amarezza). Ma ci sono anche coloro la cui struttura di carattere, e di conseguenza i cui conflitti, sono diversi da quelli della maggioranza, cosicché i rimedi validi per la maggior parte degli altri a loro non giovano. In questi gruppi troviamo talvolta elementi di rettitudine e sensibilità superiori al comune, che proprio per queste ragioni, sono incapaci di accettare il narcotico culturale, ma che nel contempo non sono, abbastanza forti e sani da vivere salutarmente “contro corrente”.
La precedente discussione sulla differenza tra nevrosi e deficienza socialmente strutturata potrebbe dare l’impressione che purché la società fornisse i rimedi contro le esplosioni di sintomi manifesti, tutto andrebbe bene e contribuirebbe a funzionare senza inciampi, per quanto grandi siano le deficienze che essa stessa ha creato. La storia però ci mostra che questo non avviene.
È bensí vero che l’uomo, contrariamente agli animali, dimostra una quasi infinita capacità di adattamento; difatti, come può mangiare quasi ogni cosa e vivere praticamente sotto qualsiasi clima, cosí non esiste condizione psichica che egli non possa sopportare e nella quale non riesca a tirare avanti. Egli può vivere libero o in schiavitú, nella ricchezza e nel lusso o mezzo morto di fame e di freddo. Può vivere da soldato o da uomo pacifico; può essere sfruttatore e ladro oppure membro di una fraterna comunità. Sono poche le condizioni psichiche in cui l’uomo non possa vivere, e non c’è quasi nulla che non si possa fare di lui o per cui non possa essere adoperato. Tutte queste considerazioni sembrano giustificare la tesi secondo cui una natura comune a tutti gli uomini non esiste; il che significa praticamente che non esiste una “specie uomo” tranne che m senso anatomico e fisiologico.
Tuttavia, a dispetto di ogni evidenza, la storia dell’uomo mostra che abbiamo trascurato un fatto. Despoti e cricche dirigenti possono riuscire a dominare e sfruttare i loro consimili, ma non possono prevenire le reazioni a questo trattamento inumano. I loro sudditi si spaventeranno, diverranno sospettosi, si isoleranno; se non per cause esterne, il loro sistema ad un certo momento crollerà perché paure, sospetti ed isolamenti renderanno la maggioranza inadatta ad esercitare le sue funzioni in maniera effettiva ed intelligente. Intere nazioni o gruppi entro di esse possono esser messe in servitú o sfruttate per molto tempo, ma reagiranno. Reagiranno con l’apatia o con una tal diminuita partecipazione dell’intelligenza, dell’iniziativa e delle capacità, che essi gradualmente non saranno piú in grado di svolgere quelle funzioni che servirebbero ai loro capi. Oppure reagiranno con una tale carica di odio e di volontà di distruzione da provocare la fine di se stessi, dei capi e del sistema. Inoltre la loro reazione può suscitare uno spirito di indipendenza e un desiderio di libertà tali da porre col loro impulso creativo le premesse per una società migliore. Dipende da molti fattori, sia relativi alla situazione economica e politica sia al clima spirituale in cui la gente vive, che la reazione avvenga in un modo o in un altro. Ma quale essa sia, l’affermazione che l’uomo può vivere in quasi tutte le condizioni è vera soltanto a metà; occorre completarla con l’altra: se egli vive in condizioni contrarie alla sua natura e ai requisiti essenziali allo sviluppo e alla salute umana, non può fare a meno di reagire; dovrà decadere e perire oppure creare condizioni piú conformi ai suoi bisogni.
Che la natura umana e la società possano avere esigenze tra loro inconciliabili e di conseguenza una intera società possa essere malata, è una tesi che fu presentata molto chiaramente da Freud, particolarmente in Das Unbehagen in der Kultur.
Egli parte dalla premessa di una natura comune a tutta la razza umana al di sopra di tutte le culture e di tutte le epoche, e di certi bisogni ed aspirazioni definibili, inerenti a questa natura. Freud è convinto che cultura e civiltà si sviluppino in un sempre crescente contrasto con i bisogni dell’uomo, e cosí giunge al concetto di “nevrosi sociale”. “Se l’evoluzione della civiltà, egli scrive, ha una somiglianza cosí profonda con lo sviluppo dell’individuo e se gli stessi metodi sono usati per ambedue, non potrebbe esser giustificata la diagnosi che molti sistemi di civiltà, o suoi periodi, o forse anche tutta l’umanità sono diventati nevrotici sotto la pressione delle tendenze generali della civiltà? All’esame analitico di queste nevrosi potrebbero seguire raccomandazioni terapeutiche di grande utilità pratica. E non direi che tale tentativo di applicare la psicanalisi alla società civile sarebbe stravagante o votato alla sterilità. Ma occorre esser cauti, e non dimenticare che, dopo tutto, abbiamo a che fare soltanto con analogie, e che è pericoloso, non solo con gli uomini ma anche con i concetti, strapparli dal terreno in cui nascono e si sono maturati. La diagnosi di nevrosi collettiva tuttavia si scontrerà con difficoltà non comuni. Nelle nevrosi di un individuo possiamo servirci, come punto di partenza, del contrasto che si presenta tra il paziente e il suo ambiente, che noi presumiamo essere “normale”; mentre nessun archetipo di questo genere sarebbe valido per una qualsiasi società malata, e bisognerebbe supplirvi in qualche altro modo. Riguardo alle applicazioni terapeutiche che noi conosciamo, a che cosa potrebbe servire la piú acuta analisi di nevrosi sociale dal momento che nessuno ha il potere dl costringere la comunità ad adottare la terapia? Ma a dispetto di tutte queste difficoltà, noi speriamo che un giorno qualcuno voglia arrischiarsi in queste ricerche sulla patologia delle comunità civili”.
Questo libro vuol arrischiarsi in queste ricerche. Esso si basa sull’idea che una società sana sia quella che corrisponde ai bisogni dell’uomo, non necessariamente a quelli che egli sente essere i suoi bisogni, perché anche le aspirazioni piú patologiche possono essere sentite soggettivamente come quelle che un individuo maggiormente desidera, ma a quelli che sono obiettivamente i suoi bisogni, quali possono essere accertati dallo studio dell’uomo. Il nostro primo compito è di determinare quale sia la natura dell’uomo, e quali i bisogni che da essa derivano. Dovremo poi procedere ad esaminare il ruolo svolto dalla società nella evoluzione dell’uomo e la sua azione di stimolo sullo sviluppo dell’umanità; dovremo studiare altresí i periodici conflitti tra natura umana e società e le loro conseguenze, particolarmente per quanto interessa la società moderna.
(E. Fromm, Psicoanalisi della società contemporanea, Edizioni di Comunità, Milano, 1964, pagg. 21-28)
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