A mio avviso, una delle principali cause di infelicità degli esseri umani è un’errata contabilità del dare e del ricevere nelle relazioni sociali, e la conseguente mistificazione del senso della giustizia.
Il mio ragionamento parte dalla constatazione della fondamentale interdipendenza degli esseri umani, per cui ognuno ha bisogno della cooperazione altrui, cioè di ricevere qualcosa dagli altri (in termini di beni e servizi). Il problema è che l'uomo non ha un bisogno di dare commisurato al bisogno di ricevere, ed il secondo bisogno prevale normalmente sul primo.
A causa dello squilibrio tra il bisogno di ricevere e quello di dare si è sviluppato il commercio (sia in senso letterale che metaforico), ovvero la tendenza allo scambio più o meno esplicito di beni e servizi tra due individui (il “do ut des”).
Tra i beni e i servizi scambiati occorre includere l'accudimento, l'approvvigionamento, la compagnia, la protezione, le prestazioni sessuali, l'amore, l'insegnamento, il lavoro, il denaro, il cibo, doni ecc.
Infatti l’uomo impara ben presto che per ricevere qualcosa occorre dare o fare qualcosa in cambio, se non si vuole ottenere con la violenza ciò che si desidera. Ciò può dar luogo ad un bisogno “indotto” di dare, come mezzo (conscio o inconscio) al fine di ricevere.
A questo punto occorre parlare del "senso della giustizia", che è un processo mentale attraverso il quale misuriamo il valore di ciò che diamo e di ciò che riceviamo, per compararli. Riteniamo infatti ”giusto” uno scambio “equo”, cioè dove c’è un certo equilibrio di valore tra ciò che viene dato e ciò che viene ricevuto.
Quando percepiamo un’ingiustizia nei nostri confronti, di solito reagiamo in modo aggressivo e/o vittimistico. Quando ci rendiamo conto di essere stati ingiusti verso qualcuno, ci possiamo sentire in colpa e possiamo cercare di rimediare. Ovviamente non siamo imparziali né obiettivi in tali valutazioni, e questo può a sua volta innescare circoli viziosi di ingiustizie "giustificate".
La faccenda si complica enormemente considerando che gli scambi sociali sono spesso multilaterali ed aperti, nel senso che, ad esempio, A può ricevere qualcosa da B senza dare a B (prima o poi) qualcosa di equivalente, ma può dare a C qualcosa senza che C abbia fatto alcunché nei confronti di A per meritarselo. È ciò che, per esempio, avviene (o dovrebbe avvenire) nei rapporti tra genitori e figli, quando questi non restituiscono ai genitori quanto da loro ricevuto, ma danno ai propri figli qualcosa di equivalente senza aspettarsi un compenso.
Possiamo dunque parlare di due tipi di giustizia: quella bilaterale (che riguarda gli scambi “chiusi” tra due individui) e quella multilaterale (che riguarda gli scambi “aperti” tra un individuo e gli altri, intesi come gruppo indifferenziato). Le persone sono sensibili in modo diverso ai due tipi di giustizia, trascurando o esaltando ora l’uno, ora l’altro, ora entrambi.
Date le premesse che ho esposto, la mia tesi è che vi sia una diffusa ingiustizia (reale o percepita) nelle relazioni sociali (sia individuali che di gruppo), a causa di errori di calcolo (o della non calcolabilità) del valore dei beni e dei servizi scambiati. A ciò si aggiunge il generale desiderio di fare “buoni affari”, ovvero di ottenere il massimo dando il minimo.
Il risultato è una scarsità, una bassa qualità e uno squilibrio negli scambi, con conseguente generale insoddisfazione e frustrazione dei bisogni umani.
Per migliorare la situazione in questa problematica, occorrerebbe, a mio avviso, sensibilizzare le persone, sin da giovani, a misurare in modo più equo ciò che danno e ciò che ricevono, sia negli scambi bilaterali che in quelli multilaterali. Questa sensibilizzazione dovrebbe essere uno degli obiettivi dell'insegnamento dell’etica.
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