2014/02/07

Invidia (di Umberto Galimberti)

A differenza della lussuria, della superbia, della gola, l'invidia è forse l'unico vizio che non dà piacere. Eppure è molto diffuso e ciascuno di noi ne ha fatto esperienza per aver invidiato o essere stato invidiato. Evidentemente le sue radici nascoste affondano in quel nucleo profondo dove si raccoglie la nostra identità che, per costituirsi e crescere, ha bisogno del riconoscimento. Quando questo manca, la nostra identità si fa più incerta, sbiadisce, si atrofizza, e allora subentra l'invidia che vorrebbe concedere, a chi è incapace di valorizzare se stesso, una salvaguardia di sé nella demolizione dell'altro.

Più che un vizio, l'invidia è un meccanismo di difesa, un tentativo disperato di salvaguardare la propria identità quando si sente minacciata dal confronto con gli altri, un confronto che l'invidioso da un lato non sa reggere e, dall'altro, non può evitare, perché sul confronto si regge l'intera impalcatura sociale. Valutazioni quali: meglio e peggio, sopra e sotto, più e meno, bene e male, successo e insuccesso, sono lì a dirci che non possiamo conoscere noi stessi se non confrontandoci con gli altri, per cui al fondo di ogni valutazione di noi, c'è sempre qualcuno con cui ci siamo confrontati. La dinamica di una società è l'effetto di questa spinta comparativa. E chi dalla comparazione si sente diminuito ricorre all'invidia per proteggere il proprio valore attraverso la svalutazione degli altri.

Tutto giustificato quindi? No. Se è vero infatti quel che dice Spinoza, secondo il quale l'esistenza è forza che può conservarsi solo espandendosi, l'invidia tende a contrarre l'espansione degli altri per l'incapacità di espandere se stessi, per cui è un'implosione della vita, un meccanismo di difesa che, nel tentativo di salvaguardare la propria identità, finisce per comprimerla, per arrestarne lo slancio. Una strategia sbagliata, quindi, che non riesce a sottrarci al confronto che ci umilia e da cui l'invidia vorrebbe difenderci.

La strategia corretta sarebbe quella di rinunciare alle mete troppo alte quando le nostre forze o le nostre capacità non ci sembrano sufficienti o adeguate. La rinuncia non è sconfitta, ma riconoscimento del limite, quindi atto di ragione. Ma come si fa a riconoscere i propri limiti in una società come la nostra che spinge continuamente a oltrepassare i limiti e ci riconosce solo se riusciamo a farlo? Qui i Greci (e in generale il mondo antico) erano molto più saggi di noi. Essi evitavano di attribuire le virtù e i successi agli individui, perché li interpretavano come dono degli dei. Invidiare il beneficiato dal dio equivaleva offendere il dio stesso, e questo era un atto di empietà. A questo punto la grandezza veniva venerata e, come ci ricorda Nietzsche, la venerazione non è passività e asservimento, ma riconoscimento di ciò che è grande. Questo riconoscimento da un lato non limita e non ostacola ciò che cresce, dall'altro incentiva chi è capace di riconoscimento ad assumere la grandezza come modello. Per questo nel mondo antico, come la storia greca e quella romana documentano, il nemico poteva essere combattuto e insieme ammirato, poteva essere ucciso e al tempo stesso riconosciuto nel suo valore. In questo modo la relazione sociale era contrassegnata da forte antagonismo, ma insieme scevra di invidia.

Ma poi, prosegue Nietzsche, al paganesimo greco-romano, che era capace di ammirare la virtù, ossia il valore dell'altro, succede il cristianesimo che diffonde il principio dell'uguaglianza fra tutti gli uomini. Questo principio, se da un lato è stato alla base del riconoscimento della dignità dell'uomo, al di là della classe di appartenenza, della proprietà, delle prerogative, dei privilegi e degli onori, dall'altro ha scatenato fra gli uomini l'invidia, perché, scrive Nietzsche in Umano troppo umano (II, §29): "Dove realmente l'uguaglianza è penetrata ed è durevolmente fondata, nasce quell'inclinazione, considerata in complesso immorale, che nello stato di natura sarebbe difficilmente comprensibile: l'invidia. L'invidioso, quando avverte ogni innalzamento sociale di un altro al di sopra della misura comune, lo vuole riabbassare fino ad essa. Esso pretende che quell'uguaglianza che l'uomo riconosce, venga poi anche riconosciuta dalla natura e dal caso. E per ciò si adira che agli uguali le cose non vadano in modo uguale".

Fu così che alla "venerazione" degli antichi, subentrò l'"invidia", prima dei cristiani che introdussero il principio dell'uguaglianza degli uomini, e poi dei moderni, cristiani o laici che fossero. Lo Stato moderno, infatti, nasce all'insegna dell'uguaglianza in base alla comune cittadinanza. Questo riconoscimento ha influito sulla mentalità corrente degli uomini sempre meno disposti a riconoscere il merito degli altri e ad approvare il successo come conseguenza del merito.

In questo modo il sentimento di uguaglianza, un sentimento nobile e ormai condiviso in tutte le società civili, paradossalmente ha moltiplicato le ragioni dell'invidia, fino a intaccare e a modificare il concetto di giustizia. Il marxismo, che da questo punto di vista è l'estrema radicalizzazione del cristianesimo, ritiene infatti che la semplice uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge è in grado di garantire una giustizia solamente formale, perché quella sostanziale può essere assicurata solo dall'uguaglianza economica, in modo che tutti possano disporre delle stesse opportunità.

E qui sarebbe interessante se qualche editore si decidesse a ripubblicare il libro di Helmut Schoeck L'invidia e la società (Rusconi, Milano, 1974) dove si dimostra che l'invidia è uno tra i più importanti motori sociali sia nelle società comuniste, sia in quelle capitalistiche. Nelle prime, infatti, si utilizza l'invidia proletaria in funzione rivoluzionaria per instaurare un'uguaglianza in cui si svuotino le ragioni stesse dell'invidia; nella seconda si "produce" e si "vende" invidia per stimolare l'emulazione e quindi lo sviluppo del mercato. Inoltre non sfugge a nessuno che nelle stesse società capitalistiche molte politiche assistenziali e certe scelte economiche e finanziarie degli Stati moderni possono essere lette come modalità sofisticate per calmare l'invidia che minaccia sempre di tradursi in rivoluzione possibile, anche se abbellita da nobili ideali per coprire profondi risentimenti.

Infatti nelle società in cui la disuguaglianza è assunta come un dato naturale si è indotti ad accettare più facilmente la supremazia dell'altro e a tollerare il proprio limite, mentre nelle società dove la disuguaglianza è ritenuta innaturale, se non addirittura il prodotto dell'iniquità sociale, l'invidia può rivestire i panni della virtù e trasformarsi in istanza di giustizia, per cui diventa legittimo chiedere a chi ha successo le credenziali della sua fortuna. E non è detto che chi ha successo riesca sempre a esibirle: in questo caso sarà portato ad accusare chi gliele chiede di essere mosso dall'invidia.

Questo può essere, ma perché mai un "vizio privato", come dicevano gli illuministi, non può trasformarsi in una "pubblica virtù"? Se l'invidia, invece di attorcigliarsi e incanaglirsi nel risentimento, diventa, nella complessità del gioco sociale, una legittima resistenza all'arbitrio, ben venga l'invidia, dal momento che dalla società degli uguali di fronte alla legge non si può recedere.

Da queste considerazioni emerge che l'invidia è un sentimento che non sopporta il proprio limite naturale in forza di una ragione sociale, perché è la società a decidere il valore degli individui, e nelle società capitaliste il criterio di decisione è il successo. Nell'assunzione di questo criterio di riconoscimento cade, chiara come la luce, la differenza tra destra e sinistra.

Ogni individuo, infatti, potrebbe accettare il proprio limite se poi, a riconoscimento avvenuto, la società non facesse cadere quest'individuo, nell'irrilevanza, perché in questo caso il limite pesa e si fa intollerabile.

E allora è vero quello che opportunamente dice Salvatore Natoli nel suo Dizionario dei vizi e delle virtù (Feltrinelli, Milano, pagg. 166, lire 13.000) là dove scrive: "L'invidia è impotenza", o perché fallisce la meta troppo elevata per le proprie forze naturali, o perché la propria potenza è legata e impedita rispetto a una meta che sarebbe anche raggiungibile. In ogni caso, scrive sempre Natoli: "L'impotenza ha un carattere costitutivamente relazionale", nel senso che dipende dalle relazioni sociali attraverso cui passa il riconoscimento individuale. E quando la società fa mancare il riconoscimento, magari per ragioni arbitrarie, non può evitare che l'impotenza si perverta in invidia, aumentando al suo interno la circolazione di questo sentimento che impoverisce il mondo senza riuscire a valorizzare chi lo prova.

Questa è la ragione per cui l'invidioso è costretto a nascondere il suo sentimento e a non lasciarlo mai trasparire: perché altrimenti darebbe a vedere la sua impotenza, la sua inferiorità e la sofferenza che per esse patisce. Per cui l'invidia, più che un vizio capitale, è un indotto sociale, e, fatta salva l'istanza di giustizia che può promuovere, è un sentimento "inutile" perché non approda al recupero della valorizzazione di sé, "doloroso" perché rabbuia e impoverisce il mondo, e per giunta è un sentimento che bisogna tenere "nascosto", senza quindi neppure il conforto che può venire dalla comunicazione.

Fonte: Repbbblica.it 8/8/2001

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